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Laserterapia

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Il raggio rosso del laser oscilla tra il pollice e il resto della mano. Scivola lungo la pelle tesa delle falangi, supera l’avvallamento vicino al palmo e risale lungo il turgore del primo dito. Allungo meglio il braccio verso quella lama di luce calda, che mi assicuro cada nel punto giusto, voglio che mi faccia bene. Ha l’intermittenza di un battito, il bip di una macchina cardiografica. Mi farà bene? Mi sento soggiogata da quella ritmicità instancabile, attratta da quell’andirivieni terapeutico. Penso che forse la ripetitività del gesto è buona cosa per lenire, per massaggiare qualcosa che dentro ha ceduto. Adesso il palmo è aperto, teso verso l’alto, come in attesa di un qualcosa che deve essere dato. Sto cercando di accelerare una guarigione, dico tra me, perché, sebbene non ci sia stata frattura o lesione, sento che dentro qualcosa è inceppato, non scorre più fluidamente. I miei liquidi interni si sono disseccati, si verificano frizioni là dove prima era uno scivolare incosciente dei tendini nelle guaine; adesso una ruggine granulosa oppone resistenza al movimento. Mi inceppo. E di questa immobilità forzata del gesto rimango stupita e offesa. Mi oppongo, forzo, spingo fino al dolore, fino a quando la scarica elettrica percorre la carne e mi colpisce come una staffilata. È questo che voglio? Opporre resistenza fino a farmi male? Non sarebbe meglio assecondare, accompagnare il dolore, ingannandolo con una compiacenza dei movimenti che lo faccia diventare irrilevante? E invece no, lo affronto di petto, lo provoco, lo voglio sfidare. Voglio sentirne l’affondo per trovare più forza.
La riga rossa mi riscalda la pelle, per contrasto rende più pallida la mia mano. Dei frantumi di luce corrono sul braccio e muoiono oltre il gomito. Davvero ciò che voglio è stare bene?

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